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MAURICE
(MAURICE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 marzo 1988
 
di James Ivory, con James Wilby, Hugh Grant, Rupert Graves, Denholm Elliott, Ben Kingsley (Gran Bretagna, 1987)
 
Il cinema del "più britannico dei registi americani" ha ormai raggiunto un livello di (sistematica?) perfezione, tale da renderlo leggibile come un manuale.

Vicino al cinema dei Cukor, dei Minnelli, Ivory era destinato alla carriera di decoratore hollywoodiano: non deve quindi meravigliarci se il suo stile è così attento ai minimi dettagli dell'inquadratura, alla ricerca raffinata (e talvolta vicina alle tentazioni accademiche) dell'atmosfera. Fortunatamente, Ivory non è soltanto un'esteta. Le sue ricreazioni d'ambiente, le sue brillantissime ricostruzioni d'epoca non sono mai puramente decorative. Come lo erano, per citare un autore di scuola diversa, quelle di un Bolognini. La perfezione estetica, la pittura delle buone maniere, dei cerimoniali (solitamente vittoriani, oppure coloniali) serve ad un discorso ben preciso. Come diceva Kubrick in BARRY LYNDON: state attenti, ma dietro a tanta educata perfezione si nasconde la più feroce delle intransigenze, l'ambiguità e l'ipocrisia.

MAURICE, dopo CAMERA CON VISTA, riprende il mondo letterario di Foster (non certo travolgente) perché permette all'autore di sviluppare il suo tema favorito: quello di una passione (o, in questo caso di una condizione) contrastata, vissuta all'interno dello scontro fra due epoche, due concetti di vita, due civiltà. Qui l'omosessualità; nel precedente, la leggermente meno trasgressiva (per quei tempi, nei quali i gay di sua maestà britannica venivano semplicemente imprigionati) libertà eterosessuale.

La cinepresa di Ivory, proprio secondo il principio che vuole il cinema uno sguardo posato sul mondo, ha la facoltà di rivelarci la minima crepa in quell'universo di levigate convenzioni: gli basta uno sguardo, un leggero cambiamento di tono. O, talora, uno scoppio violento, colorato, sensuale di una scena che contrasti con l'autocontrollo del resto. Qui, forse per ragioni di sceneggiatura, l'equilibrio non è sempre perfetto. Ci sono degli elementi ripetuti che avevamo decisamente compreso, delle parti (certi riti mondani a metà del film) che ingenerano perfino una noia forse non prevista.

Allora, dietro la perfezione del gioco (si pensi alla grande tradizione degli attori inglesi) nasce un certo qual compiacimento. Quello che i nemici di questo cinema "letterario" chiamano accademismo.


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